“Il trattamento dei Disturbi Alimentari è un lavoro di squadra”. È questa una delle frasi più comuni che diciamo i Comestai e che racconta di come per il trattamento dei Disturbi Alimentari sia necessaria un’équipe multidisciplinare che lavori in modo integrato, con una visione e un linguaggio condiviso.
Per comprendere l’importanza di un lavoro multidisciplinare abbiamo intervista il Dottor Stefano Erzegovesi, medico psichiatra e nutrizionista che da oltre 20 anni lavora nel campo dei Disturbi Alimentari.
Quando si parla di disturbi alimentari si sottolinea spesso l’importanza del lavoro in équipe. Perché non basta la figura di un singolo specialista?
I disturbi alimentari (DA) sono condizioni molto complesse, che toccano il corpo, la mente e le relazioni familiari e sociali.
In aggiunta, chi soffre di un DA è spesso confuso circa la propria condizione: “è una patologia o è solo una scelta di vita o, addirittura, una possibile soluzione alle difficoltà della vita?” Tutti questi dubbi meritano risposte chiare e ben integrate all’interno di un discorso che parli sempre la stessa lingua, anche se le persone coinvolte sono diverse.
Un singolo specialista può lavorare bene su una parte del problema, ma difficilmente riesce a gestire l’insieme. Un piano nutrizionale, ad esempio, può funzionare solo se la persona riesce a seguirlo emotivamente, e questo richiede un lavoro psicologico e medico in parallelo.
Quando l’équipe lavora in modo integrato, la cura diventa più coerente e più sicura.
A proposito di “modo integrato”: è necessario che una VERA equipe multidisciplinare mantenga, tra i suoi membri, una comunicazione diretta e fluida, in presenza o attraverso uno dei mille canali che la tecnologia ci mette a disposizione
Chi soffre di un DA ha, per sua natura, grandissime difficoltà a fidarsi dei suoi curanti e, per questo motivo, è fondamentale che senta un linguaggio ed un clima emotivo uniformi.
Chi sono i professionisti che, idealmente, dovrebbero sedersi attorno allo stesso tavolo per seguire una persona con un disturbo alimentare?
Come minimo, quindi anche per il più piccolo centro ambulatoriale che si occupi di DA, ci vogliono:
• uno psichiatra, che inquadri il disturbo e imposti la terapia farmacologica se necessaria;
• uno psicoterapeuta, che aiuti a comprendere e gestire le componenti emotive e relazionali;
• un nutrizionista, che guidi il percorso alimentare in modo graduale e realistico;
• un medico internista o endocrinologo, per monitorare le condizioni fisiche e gli aspetti ormonali.
In alcune situazioni è utile coinvolgere anche la famiglia (secondo me in quasi tutte le situazioni) o altre figure di supporto, come un educatore o un fisioterapista.
Che cosa può succedere se il percorso di cura non è coordinato e ogni specialista procede per conto suo?
Il rischio è che la persona riceva messaggi contrastanti, oppure che si senta “spezzata” tra tanti interlocutori.
Nei disturbi alimentari, dove il controllo e la confusione interna sono già forti, la mancanza di coordinamento può bloccare il percorso o farlo regredire.
Quando invece il linguaggio dell’équipe è coerente, la persona percepisce una direzione chiara e può affidarsi con più tranquillità.
Ci racconta un caso, magari senza entrare nei dettagli personali, in cui il lavoro di squadra ha davvero cambiato la vita di un paziente?
Ricordo una paziente con anoressia di lunga data, con una percezione scissa tra uno psicoterapeuta “buono, perché si interessa a come sto e mi consiglia dei libri bellissimi” e un nutrizionista “cattivo, perché gli interessa solo che mangi come dice lui”.
Solo quando il nutrizionista, la psicoterapeuta e io abbiamo iniziato a confrontarci regolarmente, mettendo in evidenza la necessità di dare alla paziente dei limiti specifici e condivisi, le cose hanno cominciato a muoversi.
Il piano alimentare è diventato più flessibile, la terapia farmacologica più mirata, e gli obiettivi psicologici più realistici.
La paziente non è “guarita di colpo”, anzi all’inizio è rimasta molto infastidita dal sentirsi dare dei limiti alle sue richieste irrealizzabili. Però, con il tempo, ha ripreso a funzionare e, soprattutto, ha smesso di sentirsi sola dentro la cura.
Secondo lei, cosa manca oggi in Italia per diffondere la cultura del lavoro multidisciplinare nei disturbi alimentari e renderlo più accessibile a tutti?
Manca tempo, innanzitutto: tempo retribuito per lavorare insieme e confrontarsi. E quando dico “retribuito” dico la necessità di investire ampie risorse per la cura dei DA, esattamente come si investono ampie risorse per la cura dei tumori.
Mancano servizi territoriali che permettano davvero un lavoro multidisciplinare continuo, non solo sulla carta.
E manca, a volte, una cultura condivisa tra i professionisti: la capacità di rispettare il ruolo dell’altro senza competizione e, soprattutto, la necessità di tenersi alla larga da una visione diagnostica estremizzata, in cui i DA sono visti, da un lato, come “capricci da adolescenti” e, dall’altro “malattie mentali gravi da cui non si guarisce mai”.
Curare i disturbi alimentari non è una gara di specialismi, ma un lavoro di coordinamento — e questo, più che nuove linee guida, richiede buonsenso e ascolto reciproco.
L’équipe di Comestai
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